VERSO UN CAMMINO DI CATECHESI
Alcuni spunti di riflessione per i capi tratti dal cammino
di catechesi che stiamo facendo nella nostra comunità.
Di Vanzo Brian
Qualche
premessa per pensare...
Il capo scout si trova spesso, a mio parere, a vivere in una situazione di radicale ambiguità: cresciuto con tutti i carismi dello scoutismo, spesso ha sentito la fede come uno scomodo e silenzioso compagno di viaggio, cui era sempre possibile negarsi. Diventato adulto, sbandieratore di parole come “scelta”, “impegno”, “cura”, si ritrova tra le mani la bomba inesplosa di una fede non coltivata, taciuta, logorata dalla sua cattività.
Ed ecco il dramma: capi tecnicamente e metodologicamente perfetti, sapienti e saporiti in tutti i risvolti dello scoutismo, ma incapaci di dire chi sia Dio nella vita di tutti i giorni, e come entri nelle scelte e negli impegni della cura dei ragazzi/ini/otti che gli sono affidati.
La fede, purtroppo, o per fortuna? è davvero altro! La scelta di fede, la fede cristiana è richiesta dal Patto Associativo, ma è per sua natura inidentificabile, proprio perché intima, eppure così visibile da smuovere le montagne. Un enigma questo, che frustra anche il capo più preparato.
Ma allora cosa ci spinge ad agire?
Non lo sappiamo e spesso non abbiamo le
parole per dirlo. Ci appelliamo alla tradizione (sono entrato da
lupetto, ne uscirò solo in “carrozzella”), alla filantropia (sono utile
alla società), al sentimento (mi piace organizzare un buon campo, stare
attorno al bivacco, mi piace che i miei lupi mi riconoscano per la strada).
Ma forse, la domanda più corretta
dovrebbe essere: per chi mi sto consumando? A chi dedico il mio tempo (così
risucchiato dalle riunioni)? A chi affido i miei giorni?
Ritorna il problema del linguaggio: non
so catalogare le esperienze, non so giudicarle. Non ho insomma un campo
referenziale, qualcosa cui appellarmi e cui fare riferimento. Esiste il
linguaggio tecnico della scuola-lavoro, quello familiare-amichevole dei miei
cari, quello scout con i suoi dogmi.
Il linguaggio non è il mezzo per
comunicare, ma la casa dove io abito. Io sono le mie parole e i miei silenzi.
Io sono la persona che esprimo e che si esprime.
Tutti noi occidentali preferiamo
guardare, spingerci, affermarci. E’ più facile vedere la televisione che
leggere un libro o ascoltare cosa “mi devo dire, cosa mi preme dentro”. Chi
sono poi le persone che ascolto? Quelle cui devo obblighi particolari (datore
di lavoro, professore, amico più influente)? E’ per questo che mi rifugio nel
“primo dei sensi”, per dirla con Aristotele, agendo con uno stimolo allo
stimolo visivo? Resto ancora legato forse alla paura di riflettere, di
meditare, di rallentare i miei ritmi per rendere chiari i meccanismi più
segreti.
L’ascolto invece, senso principe degli
orientali che hanno da sempre il coraggio di mettersi attorno a un fuoco e
raccontare belando storie vecchie come il mondo, è attesa, è mettere le
orecchie nel cuore dell’altro, di chi sta fuori di me.
Eccomi offerta la possibilità di
riflettere senza la violenza dell’evidente, di ciò che è innegabile perché si
vede. L’ascolto ci permette poi di tenere desti gli spazi che sono vitali per
la relazione: accogliendo senza invasione, ci fondiamo nella danza di silenzio
e parola che il nostro incontro ha generato.
Noi capiamo e accettiamo solo ciò di cui facciamo esperienza, ciò che ci tocca nell’intimo. Ciò che ci fa’ restare a bocca aperta per la sua novità.
Raramente facciamo esperienza di Dio, e la domanda è subito chiarificatrice: mi sento più figlio, o servo? Sono a casa mia nel Vangelo del Regno, o mi sento bloccato in norme cui credere per poter fare servizio?
Ecco quindi l’importanza di creare un linguaggio di fede per guardare il mondo e la storia da questa casa, con gli occhi di Dio, sereni e misericordiosi persino nelle contraddizioni del peccato o della persecuzione, fiduciosi nell’amore eterno del Padre, del Figlio e dello Spirito Divino. Desideriamo allora, ascoltare la Parola e meditarla nel cuore con la Lectio Divina è fare esperienza di desiderare, di attendere, di sperare. E perciò non può che essere esperienza di ascolto, di raccoglimento, di raccolta. Perché altrimenti saremmo illusi che il reale sia ciò che si vede.