Lo chiamavano don Tonino. Né Monsignore,
né Eccellenza. Era tutto un rincorrerlo nelle stazioni di notte
tra barboni e
prostitute, nei casolari di campagna dove i bimbi
senza scuola aiutano i vecchi nei campi, tra sfrattati, disoccupati e immigrati.
La gente senza volto, quella che nessuno vede
mai e che don Tonino, invece, chiamava per nome, carezzando la loro storia
e
nutrendo i loro sogni e le loro speranze.
Un prete di frontiera. Fortunato il suo Vescovo
– pensavi – e soltanto molto dopo scoprivi, per avventura, che era proprio
lui il
Vescovo: Sua Eccellenza Monsignor Antonio Bello,
Vescovo di Molfetta.
Don Tonino sorrideva dall’altare mentre celebrava
l’Eucaristia e intanto moriva di cancro. Così durante ogni Messa
erano due i
sacrifici celebrati.
Bastava un solo attimo. Aprivi l’orecchio alle sue parole e il cuore veniva subito contagiato. Non era più tuo.
Ti strappava via dalla tua casa, don Tonino. La
tana, il nido dove ciascuno di noi nasconde il capo e organizza difese
ad
oltranza che ci sollevino dal male che incombe.
Era un terremoto che squassava dalle fondamenta tutte le certezze fittizie
che
con tanta fatica avevi costruito.
Ti strappava via dalla tua pace, don Tonino. Dal
tuo mondo ben organizzato, dalla tua vita così scientificamente
distribuita tra
ambizioni, passioni, ansie da nulla.
Era fuoco, don Tonino. Era torcia. Era dinamite.
Don Tonino non inseguiva sogni, costruiva realtà.
Organizzò un esercito di credenti ma non praticanti, di atei in
cerca di
risposte, di giovani dubbiosi che non riuscivano
a riconoscersi in una sorta di pastorale sorda ai bisogni delle giovani
coscienze
in formazione. Insomma, le famose pietre scartate
dai costruttori.
Era energia elettrica, don Tonino. Insieme a questi
soldati diede vita alla Cooperativa La Meridiana, oggi conosciuta soprattutto
per la sua attività editoriale, una delle
primissime esperienze di cooperative di giovani nel Mezzogiorno.
Nel Natale del 1992, l’ultimo Natale, portò
il suo cancro a Sarajevo insieme alla famosa carovana dei cinquecento e
scrisse di
case sventrate come grotte, di stelle comete
affidate al fuoco delle granate e di angeli senza ali che non finivano
di ripetere "mir,
mir, mir", pace, pace, pace.
I suoi scritti sono lava bollente, vetriolo sul ristagno della nostra fede pigra e lenta.
"Non obbedirei al mio dovere
di vescovo se vi dicessi buon natale senza farvi disturbo. Io invece vi
voglio infastidire. Non
posso infatti sopportare l’idea
di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine. Mi lusinga
addirittura l’ipotesi che
qualcuno li rispinga al mittente
come indesiderati. Tanti auguri scomodi, allora! Il bambino che dorme sulla
paglia vi tolga il
sonno e faccia sentire il vostro
guanciale duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità
a uno sfrattato, a un
marocchino, a un povero di passaggio.
Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera
diventa idolo
della vostra vita...".